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«Con noi il paese ha evitato di sfasciarsi»

Pubblichiamo qui di seguito il testo dell’intervista rilasciata da Antonio Misiani all’Eco di Bergamo, nel corso della quale il senatore ripercorre la sua esperienza da Viceministro dell’Economia nel Governo Conte Bis. Da L’Eco di Bergamo di venerdì 26 febbraio 2021, pagina 4 di Franco Cattaneo L’orgoglio di aver fatto parte del governo Conte 2, la sottolineatura di quel che è stato realizzato nell’annus horribilis dell’Italia, ma anche i limiti dell’esecutivo, l’infinita emergenza sanitaria ed economica, l’impressione che la convivenza con Lega e Forza Italia non sarà esattamente una passeggiata. Antonio Misiani, senatore bergamasco del Pd e membro della Commissione Bilancio, racconta l’esperienza vissuta da vice ministro dell’Economia.
La sua partecipazione al governo giallorosso cosa ha significato dal punto di vista umano?
«Sono stati sedici mesi straordinari: intensissimi, difficili, appassionanti. Segnati da scelte di enorme portata in una fase storica drammatica. Ho avuto l’onore di lavorare a fianco di persone di grande livello, a partire da Roberto Gualtieri. Ho cercato di dare il massimo, con disciplina e onore come impone la Costituzione».
Qual è il lascito di questo governo?
«Un anno fa l’Italia è stata investita, prima in Europa, da un’emergenza sanitaria, economica e sociale senza precedenti. Il governo di cui ho fatto parte ha deciso misure dure e impopolari e ha lavorato senza sosta per mettere in sicurezza il Paese. Non tutto ha funzionato a dovere, ma abbiamo evitato che l’Italia andasse in pezzi e abbiamo conquistato in Europa le risorse decisive per la rinascita».
Un governo che però ad un certo punto s’è incartato: che limiti ha avuto?
«Serviva un cambio di passo, per andare oltre la mera gestione dell’emergenza. Il Pd lo aveva sollecitato in tempi non sospetti, quando avevamo chiesto un nuovo Patto di legislatura e un rafforzamento della squadra di governo. La gestione del Recovery plan è stata la cartina di tornasole di questa difficoltà».
Quota 100 e reddito di cittadinanza: una palla al piede, un vostro errore?
«Sono state scelte del governo gialloverde, non del nostro. Quota 100 scade a fine anno, c’è bisogno di un meccanismo più equo e sostenibile di flessibilizzazione dell’età di pensionamento. Il reddito di cittadinanza è uno strumento utile per ridurre la povertà assoluta. Lo è molto meno come misura di politica attiva del lavoro. Per questo va riformato».
E l’impiego del Recovery Fund, cosa è andato storto?
«Il Recovery Fund è una formidabile opportunità ma anche una grande responsabilità, visto che il nostro Paese è il principale beneficiario dei 750 miliardi stanziati dall’Unione europea. Il Piano per la ripresa delinea l’Italia dei prossimi vent’anni, andava costruito ricercando sin dall’inizio una forte condivisione con il Parlamento e le forze economiche e sociali».
Quali sono i compiti più urgenti del governo Draghi?
«Accelerare al massimo la campagna vaccinale, decidere come utilizzare i 32 miliardi autorizzati dal Parlamento, presentare entro aprile il Recovery Plan in Europa».
Il governo Draghi rappresenta una sconfitta per il sistema dei partiti?
«La tesi di un generico “default” della politica è sbagliata e strumentale. Bisogna distinguere, tra i partiti. C’è chi – come Renzi – la crisi l’ha deliberatamente aperta. E c’è chi, come il Pd, la crisi ha tentato di scongiurarla e, una volta aperta, ha provato a ricomporla. Magari con troppa timidezza e qualche titubanza di troppo, ma ci abbiamo provato».
Il test della fine del blocco dei licenziamenti sarà un passaggio decisivo?
«Il blocco dei licenziamenti è uno strumento eccezionale, strettamente legato allo stato d’emergenza. A mio giudizio, va progressivamente superato, mantenendolo solo per i settori in crisi. Ad una condizione, però: dobbiamo rafforzare gli ammortizzatori sociali e le politiche attive del lavoro. I lavoratori che perderanno il posto devono essere sostenuti e messi in condizione di trovare una nuova occupazione rapidamente».
Un governo, quello attuale, che ha una forte presenza di ministri del Nord, mentre il Conte 2 era sbilanciato sul Sud: vuol dire che la ripartenza punta sull’area forte del manifatturiero?
«L’Italia non riparte se non riparte il Nord, questo è il punto. Questa parte del Paese, Lombardia in primis, è stata investita con grandissima violenza dalla pandemia e la crisi economica e sociale qui si è manifestata in tutta la sua durezza. I ristori e la cassa integrazione hanno tamponato la situazione, ma ora serve un progetto di sviluppo sostenibile. La pianura padana è l’area più inquinata d’Europa. I soldi che Next Generation EU destina alla transizione ecologica vanno investiti innanzitutto qui e devono diventare una leva formidabile per creare impresa e lavoro. La sfida va posta a questo livello, al di là della provenienza territoriale di questo o quel ministro».
La piroetta pro Europa di Salvini, i tormenti dei Cinquestelle partito ormai dell’establishment: il nazionalpopulismo sta arretrando?
«La nascita del governo Draghi sta producendo un effetto evidente sul sistema politico. Nel 2018 Lega e 5 Stelle avevano metà dei voti e governavano insieme all’insegna dell’euroscetticismo. I grillini hanno iniziato a rompere questo schema quando hanno votato insieme a noi la nuova presidente della Commissione europea. Oggi sono molto diversi dal movimento che voleva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. Salvini ci è arrivato dopo, avviando solo in questi giorni la sua riconversione moderata ed europeista. Almeno a parole».
È vero che il Pd, di fronte al governo Draghi, ha dovuto far di necessità virtù? Siete a disagio con i vostri naturali avversari?
«Noi abbiamo risposto positivamente ad un appello del capo dello Stato, che ha chiesto un atto di responsabilità a tutte le forze politiche di fronte ad una crisi drammatica. Draghi è una figura autorevolissima e il suo governo ha un asse politico europeista in cui ci riconosciamo pienamente. Detto ciò, la convivenza con Lega e Forza Italia non sarà una passeggiata di salute. Ne dobbiamo essere consapevoli fino in fondo, attrezzandoci di conseguenza».
Fra voi e i Cinquestelle davvero un’alleanza strutturale?
«Non vedo un nuovo Ulivo all’orizzonte. Ma un rapporto più sistematico con i partner della vecchia maggioranza aiuterà il Pd a far sentire con più forza la propria voce. Non dimentichiamoci che nella nuova maggioranza noi, da soli, siamo solo la quarta forza, per rappresentanza parlamentare. E questo limite si è visto tutto nella formazione del governo, da cui usciamo oggettivamente indeboliti».
Ha capito cosa intende fare Conte?
«Ha un grande patrimonio di credibilità e consenso personale. Spetta a lui, e solo a lui, decidere se e come investirlo».
Nel Pd tira aria di congresso: è così?
«Siamo in una fase completamente diversa rispetto all’epoca in cui Zingaretti venne eletto segretario. Siamo usciti dall’isolamento ma abbiamo problemi seri. Il sindaco di Bari Decaro ha ragione: il Pd rischia di morire soffocato dalle correnti. Rischiamo la marginalizzazione, se non riusciremo a interpretare nel modo giusto la stagione che si è aperta con il governo Draghi. Abbiamo bisogno di una discussione vera: sull’Italia post-Covid, sul ruolo che noi intendiamo svolgere in questa fase. E dobbiamo confrontarci sulla leadership del partito e sul suo gruppo dirigente. Guai se il Pd facesse un salto all’indietro, verso una falsa autosufficienza. Per governare, servono coalizioni. Ma guai anche se definissimo la nostra identità e la nostra funzione a partire dalle alleanze con questo o quel partito. Noi siamo il Pd, dobbiamo avere innanzitutto l’ambizione di ridiventare la prima forza politica d’Italia».
Con Renzi una storia ormai finita?
«Mi sembra che la sua prospettiva politica si sia allontanata molto dalla nostra. Dobbiamo tutti farcene serenamente una ragione».
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